(lettera pubblicata su Il Messaggero del 28 giugno 2011)
Se l’Italia fosse un aggettivo, sarebbe semplicemente: ingiusta. In quale altro modo si può definire un Paese che quotidianamente saccheggia e reiteratamente sbeffeggia i diritti e le persone che li rivendicano? Un anno fa ho avuto la sfortuna di vincere un concorso pubblico e, insieme a quella che allora credevo essere una vittoria personale e professionale, si è fatta strada in me la timida illusione di oltrepassare finalmente l’equazione che ha accompagnato i primi sei anni della mia vita professionale: lavoro = precariato. Un’equazione deprimente e umiliante, non solo e non tanto per l’incertezza insita nello status stesso del precario, ma per l’insostenibile sensazione di non intravedere una strada meritocraticamente percorribile per cambiare la propria condizione.
Immaginate per un momento di essere una neolaureata con il massimo dei voti. Immaginate di cominciare facendo stage per niente o poco retribuiti in blasonate istituzioni internazionali, di specializzarvi con un master per poi entrare nel favoloso mondo del lavoro italiano con un contratto a progetto. Immaginate, infine, di fare dei sacrifici, di lavorare duramente, di affrontare numerosi colloqui e nuove sfide professionali e di superarle egregiamente e nonostante questo di non riuscire, anno dopo anno, a venir fuori dalla gabbia-non-dorata dei contratti a progetto.
Sono certa che molti miei coetanei si riconosceranno in questi rapidi fotogrammi, come in un déjà-vu. Sono ugualmente sicura che tutti i precari, indipendentemente dalla loro età e dal loro percorso, hanno provato sulla propria pelle che, con il passare del tempo, la formazione e le competenze cambiano, crescono e si arricchiscono, mentre i diritti no.
Perché i diritti dei precari e delle precarie non esistono. Non il diritto di ottenere un mutuo a fronte di risparmi coscienziosamente accumulati a colpi di rinunce, non il diritto di fare un figlio quando lo si desidera senza correre il rischio di non vedersi rinnovato il contratto in scadenza, non il diritto di ricevere una liquidazione per il lavoro di qualità svolto nel corso degli anni né quello di un sostegno per affrontare i periodi di disoccupazione.
Questa lettera è un atto di denuncia del vuoto abissale di diritto che assedia il mondo dei precari e delle armi spuntate con cui ognuno di noi prova quotidianamente ad affrontarlo. Una denuncia doverosa verso me stessa e verso le altre persone che condividono la mia condizione e anche verso coloro che tale condizione la sottovalutano o, peggio ancora, fanno finta di non vederla. È anche il mio primo e ultimo sguaiato urlo di dignità, pubblicamente espresso, verso una classe politica immeritevole di stima e verso uno Stato indegno di fiducia.
L’Ente che mi ha ritenuto vincitrice di concorso pubblico è l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE), quello stesso Ente di cui è stata annunciata, per la seconda volta in pochi mesi, la soppressione. Io e gli altri vincitori non assunti siamo oltre cento giovani oltremodo preparati e motivati.
Nel corso degli ultimi mesi, a tutti gli interlocutori che ci hanno voluto ascoltare (attraverso la voce del Comitato Vincitori non assunti ICE) abbiamo incessantemente ripetuto che potremmo contribuire a rinnovare l’Ente e le sue politiche, ma la verità è che di rilanciare le politiche pubbliche, in questo Paese, non gliene frega niente a nessuno. Se a qualcuno importasse, infatti, invece di sbatterci la porta in faccia, le nostre valide professionalità sarebbero utilizzate e valorizzate. L’ultima amara constatazione è che in Italia, si lavora, si studia e si vince un concorso pubblico per poi scoprire che è stato solo un passatempo e che sullo schermo sta per apparire la scritta game over.
Io non ci sto. E so che anche i miei compagni di sventura non ci stanno. Affileremo le nostre intelligenze e, da qualche parte (nei rispettivi posti di lavoro, nelle piazze o nei tribunali) ci riprenderemo quello che ci spetta di diritto, con gli interessi.
Se l’Italia fosse un aggettivo, sarebbe semplicemente: ingiusta. In quale altro modo si può definire un Paese che quotidianamente saccheggia e reiteratamente sbeffeggia i diritti e le persone che li rivendicano? Un anno fa ho avuto la sfortuna di vincere un concorso pubblico e, insieme a quella che allora credevo essere una vittoria personale e professionale, si è fatta strada in me la timida illusione di oltrepassare finalmente l’equazione che ha accompagnato i primi sei anni della mia vita professionale: lavoro = precariato. Un’equazione deprimente e umiliante, non solo e non tanto per l’incertezza insita nello status stesso del precario, ma per l’insostenibile sensazione di non intravedere una strada meritocraticamente percorribile per cambiare la propria condizione.
Immaginate per un momento di essere una neolaureata con il massimo dei voti. Immaginate di cominciare facendo stage per niente o poco retribuiti in blasonate istituzioni internazionali, di specializzarvi con un master per poi entrare nel favoloso mondo del lavoro italiano con un contratto a progetto. Immaginate, infine, di fare dei sacrifici, di lavorare duramente, di affrontare numerosi colloqui e nuove sfide professionali e di superarle egregiamente e nonostante questo di non riuscire, anno dopo anno, a venir fuori dalla gabbia-non-dorata dei contratti a progetto.
Sono certa che molti miei coetanei si riconosceranno in questi rapidi fotogrammi, come in un déjà-vu. Sono ugualmente sicura che tutti i precari, indipendentemente dalla loro età e dal loro percorso, hanno provato sulla propria pelle che, con il passare del tempo, la formazione e le competenze cambiano, crescono e si arricchiscono, mentre i diritti no.
Perché i diritti dei precari e delle precarie non esistono. Non il diritto di ottenere un mutuo a fronte di risparmi coscienziosamente accumulati a colpi di rinunce, non il diritto di fare un figlio quando lo si desidera senza correre il rischio di non vedersi rinnovato il contratto in scadenza, non il diritto di ricevere una liquidazione per il lavoro di qualità svolto nel corso degli anni né quello di un sostegno per affrontare i periodi di disoccupazione.
Questa lettera è un atto di denuncia del vuoto abissale di diritto che assedia il mondo dei precari e delle armi spuntate con cui ognuno di noi prova quotidianamente ad affrontarlo. Una denuncia doverosa verso me stessa e verso le altre persone che condividono la mia condizione e anche verso coloro che tale condizione la sottovalutano o, peggio ancora, fanno finta di non vederla. È anche il mio primo e ultimo sguaiato urlo di dignità, pubblicamente espresso, verso una classe politica immeritevole di stima e verso uno Stato indegno di fiducia.
L’Ente che mi ha ritenuto vincitrice di concorso pubblico è l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE), quello stesso Ente di cui è stata annunciata, per la seconda volta in pochi mesi, la soppressione. Io e gli altri vincitori non assunti siamo oltre cento giovani oltremodo preparati e motivati.
Nel corso degli ultimi mesi, a tutti gli interlocutori che ci hanno voluto ascoltare (attraverso la voce del Comitato Vincitori non assunti ICE) abbiamo incessantemente ripetuto che potremmo contribuire a rinnovare l’Ente e le sue politiche, ma la verità è che di rilanciare le politiche pubbliche, in questo Paese, non gliene frega niente a nessuno. Se a qualcuno importasse, infatti, invece di sbatterci la porta in faccia, le nostre valide professionalità sarebbero utilizzate e valorizzate. L’ultima amara constatazione è che in Italia, si lavora, si studia e si vince un concorso pubblico per poi scoprire che è stato solo un passatempo e che sullo schermo sta per apparire la scritta game over.
Io non ci sto. E so che anche i miei compagni di sventura non ci stanno. Affileremo le nostre intelligenze e, da qualche parte (nei rispettivi posti di lavoro, nelle piazze o nei tribunali) ci riprenderemo quello che ci spetta di diritto, con gli interessi.
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